venerdì 16 gennaio 2009

Monte Sant'Angelo - Il Santuario di S. Michele Arcangelo

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Monte S. Angelo - Santuario di San Michele Arcangelo






Visita di Ferdinand Gregorovius al Santuario di S. Michele Arcangelo nel 1874

L’adorazione degli angeli è eredità tramandata alla Chiesa cristiana dal giudaismo. Nel Vecchio Testamento s’incontrano momenti parecchi, ricchi spesso di senso poetico, ne’ quali gli angeli fanno la loro apparizione quali messaggeri e latori de’ comandi divini presso i Patriarchi, i Profeti e gli eroi d’Israele, ovvero si pongono al fianco loro per tutelarli e condurli. Essi appaiono come nature che non hanno nome, come Angeli del Signore. Il profeta Daniele è il primo che designi l’Angelo Michele addirittura come lo spirito protettore del popolo ebreo.
Il nome Michele è di origine caldaica. Appunto durante la schiavitù di Babilonia potettero gli ebrei acquistare nozione più esatta delle rappresentazioni caldaiche e persiane intorno alle schiere di spiriti celesti, che stati già, come potenze attive e mediatrici, adibiti nella creazione del mondo, rimangono sempre prostrati innanzi al trono di Dio.
I sette spiriti planetarii de’ Caldei, gli Amnschaspan della mitologia persiana, s’invertirono ne’ sette arcangeli della dottrina cabalistica. I loro nomi sono caldaici: Michele, Raffaele, Gabriele, Amiele, Zadichiele, Zafiele, Camaele. Ciascuno di questi genii governava un mondo: Raffaele, il sole; Gabriele, la luna; Michele, Mercurio.
Nella mitologia ebraica, e più tardi nella teosofia cristiana compenetrata di antiche idee asiatiche, gli ultimi quattro degli arcangeli nominati scadono d’importanza o si dileguano affatto. I nomi invece e le figure de’ primi tre si mantengono. A Venezia, in un angolo della corte del Palazzo de’ Dogi, si veggono tutti e tre scolpiti su capitelli: Michele porta la spada, e sotto di lui sono raffigurati Adamo ed Eva dopo che ebbero colto il frutto proibito; Raffaele porta una mazza; e Gabriele un giglio.
Ma via via anche Raffaele e Gabriele presero, rispetto a Michele, un grado assai inferiore. Solo a quest’ultimo era riservato di sollevarsi a duce della milizia celeste, e nella figura di lui vennero ad intrecciarsi le mitiche rappresentazioni di Ercole, I’uccisore de’ draghi, e di Mercurio, il condottiero delle anime. Egli diventò l’eroe degli spiriti angelici, messo al servizio del Signore e del principio della luce, e destinato a combattere il nemico, il principio delle tenebre. Allorchè gli angeli ribelli insorsero contro il Creatore, Michele sopraffece il loro capo. Fu egli che precipitò Lucifero incatenato a basso, nel più profondo abisso.
Le gesta eroiche dell’Arcangelo ci vengono raccontate nell’Apocalisse, che merita davvero di essere chiamato il libro mistico degli angeli. Colà Michele ci viene rappresentato come l’Ercole celeste, la cui spada sfolgoreggia sul drago immane o sul Tifone abbattuto.— «E si fece battaglia nel cielo; Michele, e i suoi angeli combatterono col dragone; il dragone parimente, e i suoi angeli, combatterono—Ma non vinsero, e il luogo loro non fu più trovato nel cielo—E il gran dragone, il serpente antico, ch’è chiamato Diavolo, e Satana, il qual seduce tutto il mondo, fu gettato in terra; e furono con lui gettati ancora i suoi angeli. »
Nella lettera di Giuda si racconta già la leggenda ebraica dell’Arcangelo, il quale contrasta e toglie a Satana la salma di Mosè e le dà sepoltura. L’Apocalisse però, come si vede, è il libro che fa passare realmente la figura di Michele nella mitologia cristiana. Nel Canto secondo del Purgatorio Dante vede venire a riva un vasello snelletto e leggiero, nel quale l’angel di Dio trasporta una turba di anime destinate pel Purgatorio. Il celestial nocchiero non è altri che Michele, il condottiero delle anime. In molti quadri apparisce dipinto con la bilancia in mano, I’istrumento col quale ei pesa le anime umane, le loro buone e le loro cattive azioni.
Nel Nuovo come nel Vecchio Testamento gli angeli fanno le loro apparizioni quali messaggeri di Dio. E in codesto ufficio continuano poscia a servizio del Cristo. Però dell’Arcangelo Michele non si parla specialmente che ne’ luoghi innanzi indicati. Le rappresentazioni sabee, talmudiche e gnostiche svolsero sempre più fra’ cristiani la dottrina degli angeli; ed il cielo s’andò popolando di legioni di una eterea milizia, divisa ed ordinata in gerarchie e cori. Ma la venerazione di codesti genii restò apocrifa, canonicamente non convalidata per alcuni secoli, sino a che, cioè, la Chiesa cristiana non ebbe sentito di avere acquistato forza tanta da resistere alle idee di Siria, di Egitto e di Grecia, che per tante vie avevano fatta irruzione nel suo culto.
Ancora nel IV secolo il Concilio di Laodicea, nel suo canone XXXV, ordinava: «I Cristiani nen dover abbandonare la Chiesa di Dio ed invocare i santi. Epperò, dove fosse scoperto alcuno dedito a questa occulta idolatria, dover esser maledetto come separatosi dal Signore Gesù Cristo, il Figliuolo di Dio, e convertitosi all’idolatria. »
Quattro secoli più tardi, appunto un tale culto idolatra venne dal secondo Concilio di Nicea dichiarato e tenuto per canonico.
Il culto caldeo degli angeli era adunque penetrato nell’Oriente e nell’Occidente, e Michele veniva venerato come il principe degli angeli. Il mondo era pieno delle sue apparizioni, e di leggende di cui egli era il soggetto. Era apparso in cento luoghi, in cima alle montagne, sulle spiagge del mare, nelle città, e s’era rivelato ovunque domatore di Lucifero. I vecchi culti pagani di Mitra, di Mercurio, di Ercole, di Erta, di Vesta e de’ Druidi vengono tutti da lui messi al bando, prendendone egli il posto.
L’apparizione è un concetto essenziale onde l’uomo in tutti i tempi nel campo della sua attività religiosa e fantastica non sa far di meno. Le apparizioni abbondano nelle mitologie di tutti i popoli. Iddii, o nature simili agli Dei, appariscono agli uomini confusi e smarriti, recando loro perdizione o salute, nelle religioni dell’India e della Persia, in Omero, nel Vecchio e nel Nuovo Testamento, e nella Chiesa cattolica sino ai giorni nostri, nei quali s’è avuto l’apparizione della Madonna nella grotta di Lourdes. Imperocchè l’immaginazione è una tendenza, un bisogno poetico nella religione. E come potenza creatrice e formatrice di miti, essa, anche oggi, in questo nostro mondo tutto avviluppato da una fitta rete di strade ferrate e di fili telegrafici, seguita ad essere così operosa, così efficace come ne’ tempi primitivi sul Sinai, in Menfi, in Dodona e Delfo, e sul Palatino a Roma. Le vaghe immagini della fantasia si consolidano via via, prendono corpo e sostanza, e, dati certi eventi in questo o quel luogo, vi diventano figure reali e oggetti di culto. Così e non altrimenti sono sorti i

maggiori tempii e gli oracoli nell’antichità; e così pure sono nati gl’innumerevoli santuarii nella Chiesa cristiana.
Le prime apparizioni di San Michele appartengono all’Oriente bizantino: la leggenda le colloca già nel tempo di Costantino. Questo imperatore avrebbe elevato a Bisanzio tre croci di bronzo, e tre volte l’anno l’Arcangelo sarebbe sceso giù dalle alte regioni del firmamento a fare il giro di quelle croci, cantando un inno. In onore di lui Costantino fece edificare innanzi alle mura di Bisanzio una chiesa, che fu chiamata Michaelion. Anzi, non meno di quattro basiliche egli deve aver fatto innalzare in onore dello stesso Arcangelo. E l’esempio di Costantino fu seguíto dagli imperatori bizantini. San Michele nella Chiesa greca venne in moda al pari del commilitone suo, il nuovo Perseo cristiano, San Giorgio. Il solo Giustiniano gli avrebbe dedicato sei chiese. Col tempo il principe degli angeli ebbe altari in quinclici basiliche bizantine. I Greci lo veneravano come loro patrono; e così accade che il nome di battesimo Michele s’incontra frequente nelle famiglie degl’imperatori bizantini, come di altre stirpi principesche in Grecia, e più tardi in Russia. Nelle province dell’Impero d’Oriente i santuarii consacrati all’Arcangelo erano parecchi; ma di tutti il più famoso era il tempio in Colosso o Chono, ove era apparso e vi veniva adorato.
Poscia l’Arcangelo spiccò il suo volo dall’Oriente, e su pel mare passò in Occidente e fece la sua apparizione sul promontorio Gargano, nel 493. Stando alle indicazioni di Strabone, sul promontorio esistevano nell’antichità due santuarii, un oracolo di Podaliri, figlio di Esculapio, con una sorgente minerale, e un altro del Veggente omerico Calcante. Quei che venivano per salute offrivano a Calcante un montone nero, sul cui vello dormivano la notte per mettersi in grado di partecipare all’apparizione e ai profetici annunzii del gran sacerdote eroe. Forse nel V secolo quegli antichi santuarii posti lì, al di sopra di Siponto, sussistevano ancora, avvegnachè nel Mezzogiorno d’Italia fossero allora pur sempre numerosissimi gli adepti e seguaci del culto pagano. Il re de’ Goti, Teodorico, fu costretto ad emanare editti contro il vecchio culto del gentilesimo; mentre Gelasio I, che era a quel tempo Papa, dovette opporsi ed impedire le Feste Lupercali, che sotto gli occhi suoi venivano ancora celebrate in Roma. Il contemporaneo di entrambi, di Teodorico e di Gelasio, San Benedetto, trovò tuttora in fiore su Monte Cassino, allorchè andò a fondarvi il suo monastero di fama mondiale, un tempio ad Apollo ed il culto relativo.
La leggenda dell’apparizione dell’Arcangelo sul Gargano è la seguente. In Siponto viveva un ricco uomo di nome Gargano, i cui armenti pascolavano sul promontorio. Un giorno un bel toro scomparve. Lunghe furono le ricerche di Gargano e de’ suoi pastori in tutte le sinuosità e i burroni del monte, sino a che non lo ebbero ritrovato all’ingresso di una grotta. Pieno di furore per la molta pena durata, Gargano vuole uccidere il toro; ma il dardo scoccato gira sopra sè stesso e va a colpire il tiratore. Il fatto prodigioso vien raccontato al vescovo di Siponto, Lorenzo; e questi ordina un digiuno di tre giorni. L’ultimo giorno di penitenza, l’8 maggio dell’almo 493, apparve al vescovo l’Arcangelo Michele e gli annunziò, la grotta averla egli stesso consacrata, e dover quind’innanzi essere un luogo dedicato in onore di lui e degli altri angeli. Ancora alcune volte apparve egli al vescovo trepidante, tanto che questi fece finalmente animo e insieme con altri credenti pose il piede nell’orrida grotta. Vi si era aggiunto il fatto che lo stesso Arcangelo era apparso anche ai Sipontini nel momento che combattevano contro genti pagane, dalle quali la città loro era fortemente minacciata. Entrati che furono nell’antro, i cristiani lo trovarono illuminato da una luce celestiale, trasformato per mano degli angeli in una cappella, e presso la nuda e rocciosa parete era elevato un altare coperto di porpora. Lorenzo fece edificare una chiesa all’ingresso della grotta, e col consentimento di papa Gelasio dedicò, il 29 settembre 493, il santuario all’Arcangelo.
La leggenda è stata probabilmente sovente rappresentata da pittori italiani e tedeschi. Io ricordo averla vista effigiata in un quadro assai originale di Hans Dürer nella galleria del castello reale di Schleissheim, presso Monaco.
Sul Gargano la Chiesa festeggia l’apparizione dell’arcangelo l’8 maggio; ma la festa del Santo ricade, secondo il calendario cattolico, il 29 settembre. Recenti ricerche avrebbero dimostrato, che appunto in questo giorno del settembre, al tempo di Costantino, venivano ancora solennizzati i Ludi Fatales. 1Anche ammettendo che la leggenda faccia risalire la fondazione della cappella sul Gargano ad un tempo più remoto del vero, essa, ad ogni modo, appartiene ad un periodo in cui, caduta la dominazione gotica, i Bizantini erano diventati signori e padroni del Mezzogiorno d’Italia. Solo da Bisanzio il culto di San Michele potette essere trapiantato in Occidente. A questo legame con Bisanzio accenna pure la persona di Lorenzo, del leggendario vescovo di Siponto, il quale vien designato qual parente dell’imperatore Zenone. Il contenuto stesso della leggenda sembra voler significare che, grazie al nuovo culto dell’Arcangelo, fu messo fine sul Gargano ai vecchi sacrifizii pagani.
Come l’abbazia sulla cresta di Monte Cassino divenne la chiesa madre per gl’innumerevoli monasteri di Benedettini in tutto l’Occidente, così fu pure della cappella sul Gargano. Imperocchè di qui andò via via diffondendosi il culto dell’Arcangelo in tutti i paesi dell’Occidente. E in Inghilterra, in Francia, in Spagna, ni Germania, ovunque sulle montagne, nelle spelonche, in riva al mare, sursero chiese dedicate a San Michele, le quali presero il posto de’ santuarii degli antichi dei del paese.
In Roma stessa, dove sotto la dominazione degli imperatori bizantini parecchi santi, venuti dall’Oriente, ebbero altari e chiese, l’Arcangelo era forse oggetto di adorazione sin dal VI secolo. V’era una chiesa di San Michele sulla Via Salaria, la quale è per tempo anteriore anche alla più famosa di tutte le cappelle che al principio degli angeli furono nella città elevate. Roma appunto fu il luogo dove l’Arcangelo fece la più nobile delle apparizioni sue. Correva l’anno 590. La peste desolava Roma già decaduta e piena di rovine, e il gran pontefice Gregorio conduceva verso San Pietro una processione espiatoria. A un tratto sull’alto delle vetuste mura del mausoleo di Adriano fu vista ondeggiare sospesa la figura dell’Arcangelo. Nunzio di salvezza, egli si mostrò in atto di riporre la spada fiammeggainte nel fodero; e questo fu il segno della fine della peste. In cima al Mausoleo venne allora in onor suo edificata una cappella; e lassù rimane ancora oggi l’immagine dell’Arcangelo librantesi sulle ali dorate, spiegate al sole, in atto d’inguainare la spada: il più bel simbolo della Chiesa cristiana, il cui significato però, il cui insegnamento ben pochi Papi han mostrato d’intendere. E da quel tempo il mausoleo di Adriano venne chiamato Castel Sant’Angelo.
La cappella sul castello esisteva già nel VII secolo. La Diaconia di Sant’Angelo in Pescheria, edificata fra gli avanzi del Portico di Ottavia, dalla quale ancora ai giorni nostri trae il nome suo uno de’ rioni della città, sembra essere sorta nel secolo VIII. Poscia nel IX sorse pure in Borgo Vaticano San Michele in Sassia, chiesa appartenente ai Sassoni, presso i quali naturalmente il Santo doveva essere già oggetto di venerazione. Nel Concilio di Magonza, nell’813, il giorno di San Michele venne riconosciuto dalla Chiesa cristiana come giorno festivo. Ancora nel XVI secolo un’altra superba chiesa venne in Roma consacrata: Santa Maria degli Angeli nelle Terme Diocleziane. Fu questa l’ultima opera dell’immortale artista, che portava il nome dell’Arcangelo, come il contemporaneo suo, anch’egli celebre, il grande architetto veronese Michele Sammichele. E vero che il pittore per eccellenza portava il nome del secondo arcangelo; ma è pur egli, Raffaello, che ha dipinto San Michele, I’uccisore del drago, e il suo quadro è al Louvre.
In molte altre città vennero anche innalzate chiese in onore di San Michele. La più antica forse fu quella di San Michele in Affrisco a Ravenna, la cui costruzione rimonta al VI secolo. Quindi segue San Michele di Pavia, ove i re Berengario e Adalberto, e più tardi Barbarossa, presero la corona longobarda.
Infrattanto l’Arcangelo era mano a mano penetrato sin nelle più remote regioni della Gallia occidentale. Un bel giorno scosse dal sonno il vescovo Oberto d’Avranches, ordinandogli di edificare in onor suo una cappella lì, sull’alto delle rocce, presso il mare, dov’era Tumba, un antichissimo santuario druidico. Il vescovo esitò, come Lorenzo in Siponto; e, come a costui, l’Arcangelo gli apparve di nuovo, toccandogli questa volta la fronte; sicchè Oberto ebbe a portarne un segno che gli doleva. Allora il vescovo si risolvette a edificare la richiesta cappella; la consacrò nell’anno 710, e chiamò alcuni Benedettini ad officiarvi Tale l’origine del tanto noto santuario di Mont Saint-Michel, il Gargano della Normandia.
Poichè ebbero conquistato quella provincia, i Normanni fecero della cappella un gran centro di pellegrinaggio. I pellegrini vi affluivano dalla Francia e dall’Inghilterra. La chiesa crebbe a dismisura in ricchezze, sino a temere per suo conto bastimenti sul mare. Il massimo degli Ordini cavallereschi della vecchia Francia, fondato da Luigi XI, la catena d’oro con la medaglia dell’Arcangelo e la conchiglia de’ pellegrini, ripete di lì, da quel santuario, i suoi natali. Anche in altri paesi venne fondato lo stesso Ordine. Oggi ancora la cappella esiste come luogo di pellegrinaggio; e non ha guari il Monte Saint-Michel ha fatto assai parlare di sè. Lassù infatti i vescovi di Francia mandarono pellegrini a migliaia, assordanti l’aria col nuovo inno della rivincita: Sauvez Rome et la France!
Nella leggenda relativa alla fondazione del santuario si riflette e campeggia, come è facile accorgersene, quella del Gargano. La grotta, diventata chiesa nelle Puglie, fu e restò la metropoli del culto di San Michele nell’Occidente. I Normanni di Francia lo riconobbero; sicchè durante tutto il medio evo tra i due luoghi prodigiosi, benchè tanto lontani, le relazioni furono sempre intime.
Intorno alla cappella sul Gargano era sin dal VI secolo sorta una piccola terra fortificata, l’odierna Sant’Angelo. Longobardi, imperatori greci e Saraceni se ne disputarono il possesso. I Longobardi, dopo essersi sotto il loro condottiero Zoto impadroniti di Benevento, soggiogarono pure la massima parte delle terre pugliesi. Al cominciare del VII secolo il Ducato di Benevento si estende, va al di là di Siponto sino al Gargano; e nel 657 sull’alto del monte i Longobardi diedero il sacco all’Arcangelo. Ma poscia il paese venne loro tolto dall’imperatore greco, Costante II. Da allora in poi sembra il Gargano esser rimasto in potere de’ Bizantini sino a mezzo il secolo IX, sino cioè al tempo in che i Saraceni ebbero messo stabile dimora nelle Puglie. Nell’841 questi conquistarono Bari, dove il loro Sultano pose la sua residenza. Nell’anno 869 la cappella sul Gargano ebbe, per mano degl’infedeli a subire un secondo saccheggio. Ma due anni più tardi il potente imperatore Ludovico II riuscì dopo lunghi sforzi a prendere Bari d’assalto.
Però, malgrado la perdita della città, gli Arabi seguitarono a rimanere in possesso del promontorio, e vi si fortificarono e di lassù intrapresero , incursioni e scorrerie nelle sottoposte campagne. Il Capo o una parte di esso, chiamarono col proprio nome il Monte Saraceno, nome che ancora oggi si conserva.
Di un altro saccheggio del santuario da parte degli Arabi si parla nell’anno 952. Le loro scorrerie, per altro, cessarono allorchè l’Imperatore greco, nel 982, dopo la spaventevole disfatta toccata ad Ottone II presso Stilo in Calabria, divenne di nuovo signore delle Puglie. Un luogotenente greco ebbe da allora sua sede in Bari col titolo di Catapano (Capitaneus), donde il nome di Capitanata, che oggi ancora porta una delle tre province pugliesi. Protetto dall’Imperatore greco, l’Arcangelo era sempre sul Gargano, quando vi vennero come pellegrini il fantastico figliuolo di Ottone II e la bizantina Teofania. Ottone III fu il primo imperatore che l’Arcangelo potè vantare fra i suoi visitatori.
Il famoso Gerbert, papa Silvestro II, aveva svegliato nella mente del giovine Imperatore il primi pensiero di una crociata per liberare Gerusalemme. E, pieno l’animo d’immagini dell’Oriente, volle Ottone III, l’anno 998, andare al Gargano qual pellegrino. A piedi scalzi uscì dalle porte di Roma, e a piedi scalzi andò da Benevento a Siponto; e accompagnato da frati, preti e cavalieri salì l’aspra montagna. Nella santa grotta, così si diceva, egli desiderava lavarsi della colpa onde s’era macchiato, mandando crudelmente a morte l’avvenente duca Crescenzio, l’eroe della libertà di Roma. Egli trovò la cappella nuda bruca, avendola i Saraceni quarant’anni innanzi spogliata; e, per rifarla, deve avervi lasciato offerte ricche e copiose.
In pellegrinaggio dell’Imperatore de’ Romani e dell’Occidente sul Gargano levò allora nel mondo grande rumore. Certo, esso non dovette contribuir poco ad accrescere in tutti i paesi occidentali la fama e la venerazione per l’Arcangelo. Indi in poi non passava anno che non si vedessero Longobardi dell’Italia settentrionale e meridionale, Franchi, Sassoni, Angli, Normanni, grandi e piccini, ascendere l’alpestre sentiero per andare a compiere nella sacra spelonca devote preghiere e deporre le loro offerte, e quindi venir giù con amuleti consacrati, il cappello e l’abito fregiati della conchiglia tradizionale, e in mano il ramo del pino garganico.
Dove i custodi del tempio, a partire dall’XI secolo, avessero avuto il pensiero tutto moderno di tenere il libro de’ visitatori e pellegrini che vi erano venuti, noi potremmo ora leggervi i più grossi e chiari nomi del medio evo.
Dodici anni dopo il pellegrinaggio di Ottone III, vi apparvero cavalieri che venivano

peregrinando di Normandia, dal paese stesso dove era l’altro famoso santuario presso Avranches. Allora appunto la gente longobarda nelle città marittime della Puglia era insorta contro la dominazione de’ Bizantini. Al tempo stesso la Puglia e la Campania erano di nuovo molestate da’ Saraceni, i quali miravano ad impadronirsi del Ducato longobardo di Salerno. La leggenda ha abbellito con tinte romantiche il primo apparire dei Normanni nella Puglia. Storicamente però non ci è di vero che questo: il Duca di Salerno prese a’suoi servizii questi avventurieri stranieri. Mentre ciò accadeva a Salerno, in Bari Melo, uomo di grande ed eroica energia d’animo, di famiglia longobarda, si levava contro i dominatori bizantini. In men che non si dica, visitò le corti longobarde di Capua e di Benevento, richiedendole di alleati e soccorsi. Ed è qui dove la leggenda racconta, che s’incontrasse sul Gargano con pellegrini normanni di ritorno da Gerusalemme e li persuadesse ad arrolarsi sotto le sue insegne contro i Greci, ed a chiamare anche altri compatriotti loro nell’ubertoso paese di Pug]ia, promettendo colmarli tutti di larghi stipendii, di spoglie ed onori.
Ad ogni modo, può anche in ciò esservi un fondo di verità. Non è improbabile che pellegrini normanni facessero la via del Gargano. E così i legami tra i due lontani santuarii dell’Arcangelo, quello in Normandia e questo sul promontorio pugliese, avrebbero cooperato a dar nascimento, mercè le imprese di pochi avventurieri normanni, al Regno delle Due Sicilie.
Nel 1017 Melo prese ai suoi stipendii una schiera di Normanni capitanata da Rainulfo. Con essi e con altra gente d’arme potè in sulle prime tener fronte con successo ai Bizantini. Ma nel 1019 venne battuto e messo in rotta presso l’antica Canne dal valoroso Catapano Bugianus. Era questi il Catapano medesimo, cui si deve la fondazione del]a città di Troia. Melo, fregiato del titolo di Duca di Puglia, morì in esi]io alla corte dell’imperatore Enrico II, a Bamberga, ove ebbe sepoltura nel Duomo.
Di lì a poco, nel 1022, questo pio Imperatore intraprese egli stesso per proprio conto una spedizione nella Puglia, ]a quale fu coronata da pieno Successo. Egli tosse il paese ai Greci e ]o assoggettò alla corona tedesca. Prima che pigliasse la via del ritorno, salì anch’egli come pellegrino il Gargano.
Il suo pellegrinaggio fu occasione al formarsi di una leggenda, il cui contenuto è questo: mentre l’Imperatore pregava nella cappella dell’Arcangelo, s’intesero a un tratto risuonare nella grotta cori angelici, e vi si diffuse una luce celestiale; San Michele apparve, il messale nelle mani, che presentò al Salvatore, il quale, fattosi anch’egli visibile, lo baciò. Cristo ordinò quindi all’Arcangelo di farsi innanzi all’Imperatore, al che Enrico, colto da sacro tremore, restò come privo di moto e di vita. Allora l’Angelo, presolo pel fianco, lo fece inclinare sul santo libro, perchè lo baciasse, e da questo momento l’Imperatore ebbe il fianco rattrappito. Così la leggenda spiegava il fatto dell’essere Enrico II effettivamente zoppo.
Chi in Roma abbia visto le antiche pitture murali, con le quali in sugli inizii del secolo XIII Onorio III fece ornare il portico di San Lorenzo fuori le mura, ricorderà certamente una delle scene che vi sono rappresentate. E la lotta di Satana con un angelo, il quale pesa con la bilancia l’anima di un uomo e le sue opere. Un calice d’oro fa dare il tratto in senso favorevole. L’angelo è appunto il divino condottiero delle anime, Michele; e l’anima che vien pesata è quella del pio imperatore e pellegrino, Enrico II. Il calice d’oro egli lo aveva forse offerto qual donativo all’Arcangelo sul Gargano.
Ignoro se sulla tomba dell’Imperatore a Bamberga, nel Duomo, opera della Rinascenza germanica dell’anno 1513, siano istoriati il suo pellegrinaggio e la leggenda del Gargano. Già anche innanzi della spedizione in Puglia deve essere stata tutta speciale la devozione di Enrico II per l’Arcangelo. Presso Bamberga infatti ci è un Michelsberg (Monte San Michele), con un’antica badia di monaci benedettini, la quale, sin dall’anno 1009, fu fondata appunto da codesto Imperatore.
Di monti che prendon nome da Michele ve n’ha, del resto, parecchi in Germania, specie in Franconia, nella Svevia, nella Baviera ed in Alsazia. Sono tutti residenza dello stesso Arcangelo, che andò ad assidersi sulle rovine di antichi tempii pagani. Vi è un Michelsberg presso Ulm; una cappella di San Michele presso Gundelsheim; un Michelsberg presso Hersbruck, tra Norimberga e Ratisbona; e molti altri ancora. Indubbiamente ciascuno possiede intorno all’Arcangelo la sua propria leggenda. Una delle più antiche è forse quella del Michelsberg presso Besigheim, la cui cappella è edificata sul sito ove era prima un tempio dedicato a Diana. Di là, un tempo, Bonifazio, l’apostolo de’ Tedeschi, venne ad annunziare ai pagani il cristianesimo. Satama però metteva ostacoli alI’opera di lui; e l’apostolo invocò l’Arcangelo, perchè gli venisse in aiuto. Il celeste duce non si fece aspettare; e venne giù a combattere il demonio, il quale cinse di catene e scaraventò nell’inferno. Però, nella lotta, al principe delle tenebre venne fatto strappargli dalle ali una penna, scintillante tutta di diamanti e rubini, e Bonifazio la raccolse dal suolo e la depose in un forzierino, nascondendo questo sotto l’altare della chiesa da lui edificata sul posto del tempio di Diana. Colà la preziosa penna rimase sino al tempo della Riforma, fra le cui tempeste andò poscia perduta.
E assai probabile che parecchi santuarii e leggende relative all’Arcangelo siano ne’ varii paesi d’Europa nati nell’epoca delle Crociate. Forse a tale epoca appartiene anche la leggenda di Monte San Michele in Cornovaglia, là ove sorge il castello di Arturo, ne’ cui ascosi e profondi recessi l’eroe Kimri con i cavalieri della Tavola Rotonda siede e dorme e dormirà insino a tanto che l’Arcangelo non verrà a svegliarlo.
Numerose furono le schiere di pellegrini che in occasione delle Crociate salirono il Gargano. L’esser questo sull’Adriatico, rivolto verso le coste dominate da Bisanzio, e quasi sulla via dell’Oriente, lo avvicinava di molto a Gerusalemme. Al santuario accorrevano quindi i Crociati, sia al ritorno da’ Luoghi Santi, sia nell’andare, prima d’imbarcarsi nei porti di Barletta, Bari o Brindisi. Scopo loro era o il render grazie a San Michele chle, come San Teodoro e San Giorgio, era già apparso parecchie volte in Siria fra le schiere de’ Crociati, largo di appoggio e soccorsi, ovvero per implorarne ed assicurarsene innanzi tratto il patrocinio.
Verso ia metà dell’XI secolo la dominazione de’ Greci nella Puglia venne meno. Benevento cadde in potere del Papa; ma del Gargano s’impadronirono i Normanni. Rainulfo, il mercenario di Melo e primo Conte di Aversa, era riuscito a farsene signore. Indi in poi la medesima gente normanna ebbe in custodia le due primarie cappelle dell’Arcangelo. I duchi di Normandia custodivano quella di Avranches, e i duchi normanni di Puglia quella sul Gargano. E così con l’andare del tempo quello ch’era stato il più antico genio tutelare degli Ebrei diventò l’angelo protettore de’ Normanni.
Nell’anno 1137 ancor a un altro imperatore tedesco, il sassone Lotario Il, prese la. via del pellegrinaggio. La serie de’ principi, de’ papi, delle persone di alto grado, che andarono pellegrini sul Gargano, è assai lunga. La fama del prodigioso santuario si tenne viva sempre.
Diventati gli Hohenstaufen eredi della dinastia normanna nelle Puglie, essi assunsero fra l’altro anche la custodia del santuario. Le memorie del tempo non ci dicono sé Federico II, Corrado IV e Manfredi siano saliti sul Gargano. Ma non è improbabile che anche essi il facessero; essi, che così spesso soggiornarono in tanta prossimità del monte, a Foggia o a Siponto. Curiosità, e forse anche un sentimento vero di fede nella possanza dell’Arcangelo, li avrà spinti a visitarne la grotta e, in segno della loro venerazione, a lasciarvi donativi. Si dice che Federico II vi deponesse un pezzo della croce del Cristo, il quale ancora oggi vi sarebbe conservato.
Caduti gli Hohenstaufen, venne la volta de’ bigotti Angioini, che più di tutti si distinsero nell’onorare il santuario. Carlo I nelle sue pugne con Manfredi e Corradino si sarebbe votato a San Michele o, meglio, immaginato di essere sotto il patrocinio speciale di lui. Fece con grande lusso ricostruire la cappella sul Gargano, le cui forme e l’aspetto presente sono in gran parte quelle d’allora. A lui si deve pure la costruzione di una più comoda strada per ascendere a Sant’Angelo. E, al pari di lui, tutti i successori suoi sul trono di Napoli si mostrarono per la cappella pieni di sollecitudini e devozione.
La Madonna di Loreto e San Nicola di Bari non valsero a far diminuire l’affluenza de’ pellegrini a San Michele sul Gargano. Sicchè di tutti i luoghi di pellegrinaggio in Italia esso restò sempre il più visitato.
Sono scorsi tredici secoli dacchè il singolare santuario sorge lassù, in vetta all’alpestre promontorio. Imperi, popoli, lingue sono scomparse; nuovi continenti sono stati scoperti; rivoluzioni senza numero, invenzioni e creazioni senza fine hanno scosso, sconvolto da cima a fondo l’Europa, I’hanno trasformata e rinnovata: l’Arcangelo sta lì sempre, impassibile, immoto, come se nulla fosse. E ancora oggi, come al tempo di Narsete e Belisario, pellegrini a stormi salgono il monte e vanno a pregare nella stessa spelonca, allo stesso cherubo celeste dell’antica Caldea, la cui reale esistenza, in un qualche remoto o recondito punto tra il cielo e la terra, nessuno astronomo ha mai scoperta nè potrà mai scoprire. Noi stessi siamo testimoni oculari del sorprendente fenomeno, poichè anche noi ora, nel maggio dell’anno 1874, andiamo in pellegrinaggio sul Gargano.
In sul primo albeggiare del 17 di maggio eravamo già usciti in carrozza da Manfredonia. L’umanità pellegrinante ha trovato modo di compiere anche i suoi uffici religiosi più comodamente che non facessero gli antichi progenitori. Al promontorio, dove un tempo non si saliva che a piedi o sull’asino, ora si va per una spaziosa strada carrozzabile, tagliata nel calcareo alabastrino, la quale

conduce sino in cima dei monte, alla città dell’Arcangelo. Da Manfredonia al principiar dell’erta s’impiega un’ora circa; e di qui poi, sino alla grotta, occorrono ancora due ore.
La strada comincia attraversando le estese e deserte campagne che costeggiano il golfo, e passa accanto a pochi oliveti e ad alcuni poderi, le cui fattorie devono quasi tutte l’origine loro a vecchie torri medievali. Innanzi a noi il promontorio, che di mano in mano s’erge sempre più maestoso. Le sue immani rupi rossastre si spingono molto innanzi nel mare, e chiudono a ridosso e nascondono la rada di Vieste, dove una volta sorgeva un tempio di Vesta. Qui il Gargano piglia proprio le forme di un promontorio, del vero sperone d’Italia, quale comunemente si usa chiamarlo. Guardato da Foggia o da San Severo, apparisce invece non come un capo, ma come una fila lunga di montagne che non ha estensione minore di trentasette miglia. Quando in sulla sera s’imporpora tutto delle tinte calde del sole cadente, lo si crederebbe una rocciosa parete fiammeggiante, messa dagli Dei a custodia di un paradiso.
Ma la massa, in realtà, forma un sistema compiuto di monti e di valli del circuito di centoventi miglia. Dal lato del settentrione va leggermente digradando sino alle coste pianeggianti, dove si formano i due laghi di Lesina e di Varano. Attraverso il primo scorre, innanzi di andare a scaricarsi nel mare, il Fortore, che è il confine occidentale del Gargano e al tempo stesso il limite che separa la Puglia dagli Abruzzi. Verso il mezzogiorno invece, sul Tavoliere, solleva ripido ed erto il suo calcareo dorso. Da questo lato le giace ai piedi il lago di San Giovanni Rotondo; mentre più in là, e in basso, il Candelaro va, serpeggiando, a versarsi nel Pantano Salso. Sicchè, a settentrione come a mezzogiorno un lembo di coste, tutte frastagliate di paludi, corona il Gargano, il quale poi verso oriente si slancia e scosceso si sprofonda nel mare. Qui, sul cocuzzolo di Monte Calvo, al di sopra di Sant’Angelo, raggiunge la massima altezza di l800 piedi. Da questo lato raro s’incontra un po’di spiaggia: solo qui e là, fra le rupi, qualche picciolo seno. Pure vi sono due paesi, Matinata, un villaggio a ridosso del monte Sant’Angelo, con una rada; e, più in là della Punta della Testa, il porto di Vieste, o, come lo si chiamava nel medio evo, Vestis, antica sede di un vescovo. Sul litorale, dal lato del settentrione sorgono anche Peschici e Rodi, due luoghi di approdo. Dal lato del mezzogiorno giace infine il più gran porto della regione garganica, Manfredonia.
Oltre questi paesi lungo ie coste, ve n’ha parecchi altri sulle pendici nordiche e meridionali: San Marco in Lamis, San Nicandro, Monte Saraceno, Rignano, San Giovanni Rotondo, Monte Sant’Angelo, Vico, Cagnano, Carpino e Ischitella
Sin nell’antichità il nome del Gargano suonava famoso per la sua flora magnifica e per le sue negre foreste di pini e di querce. Orazio fa menzione del Querceta Gargani . Oggi le foreste sono di molto diradate; pure rivestono ancora lunghi tratti del monte, specie nella parte centrale, ove è il gran bosco di querce chiamato Bosco delle Umbrie. Nelle valli dominano l’agricoltura e la pastorizia; nelle pendici, ridotte la più parte a terrazzi, fioriscono la vite e l’olivo.
Una popolazione robusta, da’ costumi semplici, abita queste contrade. Il modo di vestirsi, soprattutto degli uomini, ha qualcosa di singolare e di pittoresco: un’ampia giubba, che ha quasi del pastrano, di grossa stoffa in lana bruna con cappuccio, di solito foderato di vello nero; una fascia rossa alla cintola; e in capo un berretto frigio di color cilestro. E un costume nazionale bello davvero. A molti dal colorito abbronzato e da’ nobili lineamenti del volto porge certa aria di distinzione, specie quando la giubba è di stoffa più fine. Era domenica, e di codesti uomini così vestiti ne vedemmo a schiere andar per la strada.
Questa, che noi appunto battevamo, sale costa costa e si sviluppa tanto ardita e comoda insieme, quanto un passaggio alpino nella Svizzera. Tra rocce bianche come neve procede, spingendosi su su, per giri e rigiri, fiancheggiata da’ pali del telegrafo. Veramente, questi pali formano il più acuto contrasto con quel mondo misterioso lassù in vetta e con la millenaria leggenda che vi si è abbarbicata. Non rappresentano forse questi semplici apparati, composti di travi mal piallate e di fili di ferro insieme congiunti, un miracolo dell’umana coltura, più grande e più prodigioso di tutte le leggendarie gesta dell’Arcangelo? Ma, via, non muovianlo a sdegno l’eroe celeste, che ha trionfato di Tifone e delle tenebre! In fine, appunto al servizio della luce stanno qui questi fili. Spiriti di luce, di libertà e di pace scorrono per essi come baleni invisibili. Forse il giorno, ora lontano, dovrà pur venire, in cui il cherubo divino si farà vedere di nuovo dall’umanità, librantesi sulle ali e riponendo la spada nel fodero. Allora forse le tenebre saran vinte del tutto, e si cesserà una volta dal guerreggiarsi per qualche misera zolla di terreno o per ornarsi della porpora cenciosa e insanguinata del potere e della gloria.
Tratto tratto si può scorgere la vecchia strada non carrozzabile. Essa certamente risale al tempo degli Angioini, e fors’anco a tempo più remoto. Ora è un semplice sentiero, buono solo per cavalcature, e serve in alcuni punti ai pellegrini per scorciare il cammino.
Il promontorio era animato appanto dall’andare e venire di gruppi di pellegrini. Benchè il gran giorno di festa deil’Arcangelo ricorra 1’8 di maggio, pure il pellegrinaggio continua tutto il mese. Molti andavano a piedi col loro bordone ornato del ramoscello di pino. Codesto distintivo era sicuramente già in uso al tempo di Ottone III. Altri invece andavano a cavallo, e parevano soldati in marcia, ma senza ordine e, s’intende anche, senza cantare.
Più si andava in su, e più bello, più magnifico si dispiegava giù, nel fondo, l’azzurro golfo e il mare Ionio e gli elisii campi pugliesi con le loro innumerevoli città. Era uno spettacolo di una grandezza incantevole, che noi però non potemmo goderci che in parte soltanto. Il vento, che già soffiiiva gagliardo, si fece via via furioso; sicchè ci addosso un freddo mattutino e addiacciante, sino a diventarci insopportabile. Le nostre estremità erano intirizzite tutte. A nulla giovò lo scendere di vettura e il fare a piedi un tratto di strada. Non appena la via torceva ad oriente, l’infuriar della tempesta, ululando e strepitando, ci batteva in viso; onde fummo costretti cercar di nuovo ricovero nella carrozza.
Con crescente impazienza spingevamo in alto lo sguardo, alla città di Sant’Angelo, al termine della nostra fortunosa ascensione. La città appariva ora con la sua grande casa comunale dipinta in rosso, con le abitazioni imbiancate, e le negre torri e le mura, in una linea lunga, quasi penzoloni sopra erti precipizii. A noi però sembrava di non approssimarci mai, e che fosse quasi impossibile il raggiungerla. Forsechè l’Arcange]o respingeva noi eretici dal suo santuario? Così, in verità, egli s’era nel medio evo comportato con un vescovo eretico, il quale, per fare ammenda de’ peccati suoi, era andato pellegrino penitente al Gargano, ma non meno di un anno intero stette lì a tentare inVano

la salita del sacro monte. Fortunatamente, io potei fare animo ai miei Compagni di viaggio persuadendoli, che per noi destino simile non ci era da temere. Imperocchè a questo buon demone io ho avuto sempre grande venerazione. Per quattordici anni, dall’alto delle mie finestre, l’ho visto tutti i giorni con le sue grandi ali di bronzo, spiegate al sole e raggianti, dominare Castel Sant’Angelo e Roma. Ed ora, compiendo un desiderio lungamente nutrito, vo a visitarlo sul suo monte stesso. Certo, io non posso recargli auree corone, ma come offerta del pellegrino gli dedico almeno alquante pagine.
In fine ci eravamo avvicinati all’altipiano, e potemmo esser certi che lo scopo nostro era raggiunto. Su quell’altura, su quelle pietre rese friabili dall’intemperie, in quella regione melanconicamente e sublimamente selvaggia, il mugghiare del vento aveva una potenza e un effetto che mettevano orrore. Guardando da un lato della strada, vedemmo accovacciato sotto ad una rupe un pellegrino con un bambino in braccio, che cercava riparare dal furore della procella. Inclinato sulla povera creatura che piangeva forte, con l’espressione tutta propria dell’amore paterno, la confortava e racconsolava. Sotto l’impeto della burrasca, come avrà fatto il meschinello a scendere col bambino l’erta e raggiungere il piano! E mi tornò in mente una vecchia canzone: «Vengo dalla montagna: la tempesta fischia, muggisce il mare.»— Ich komme vom Gebirge her, es heult der Sturm, es braust das Meer.» — E una poesia di Schmidt da Lubecca, tutta piena di melanconiche assurdità; ma la melodia di Schubert l’ha resa immortale: «Nella foresta degli spiriti l’eco risponde: là ove tu non sei, ivi è la felicità! »—Im Geisterwald ruft es zurück: Dort, wo du nicht bist, da ist das Glick !
E così, battendo i denti, giungemmo alfine nella città de] Gargano, che deve all’Arcangelo la sua origine e il suo nome. Essa ci appariva, come se sì tenesse arrampicata al raso cocuzzolo del promontorio, in mezzo ad una solitudine grandiosa, col mare di sotto: un ammasso di bizzarre case imbiancate, sulle quali s’innalzano fumaiuoli innumerevoli delle più strane forme; e il tutto dominato da un’alta e scura torre. Le case poggiano sulla nuda roccia: alcune seguono a scaglioni il digradar delle rupi, e folti arbusti di quercia fan loro corona.
Nell’entrare in città, sbattuti dal vento e avvolti in un turbinio di polvere, noi potemmo immaginarci di essere arrivati alla dimora di esseri favolosi. La popolazione maschile sembrava esser tutta fuori, in istrada, ed aveva aria di un moltitudine di demonii che andassero su e giù taciturni. Ciascuno di quegli uomini, causa il gran freddo, s’era imbacuccato nel suo oscuro pastrano, e tirato su il cappuccio. A vederli così tutt’insieme si sarebbero presi per una grande riunione di cappuccini o d’incappati. E così mutoli s’aggiravano a caso; mentre le campane del santuario, che ancora non vedevamo, suonavano a distesa.
E del santuario andavamo impazienti in cerca, dopochè in una sudicia cànova di vino, che aveva qualcosa di un covo di malfattori, ci fummo alquanto riscaldati. La via che conduce alla cappella, passa per la piccola piazza della città. Ivi, su di una colonna, sorge una figura in marmo dell’Arcangelo, lavoro che viene attribuito a Michelangelo. Da un de’ lati s’innalza una grossa e nera torre a due piani, bella costruzione di Giordano da Monte Sant’Angelo, l’architetto di Carlo d’Angiò. La piazza rigurgitava di gente. Frotte di pellegrini facevan ressa alla porta del santuario, dove, nella grotta, la messa era sul punto di cominciare. Il vento fischiava violentissimo intorno e al di sopra di noi. Una banderuola in ferro, attaccata alla croce del campanile, un San Michele girante, scricchiolava e strideva in modo da mettere ribrezzo. Come fra il gridío e lo strepito di spiriti elementari noi ci avviammo a scendere nel misterioso regno delle ombre.
La grotta giace profonda nel seno di una rupe, le cui pareti sono nascose da sacri edifizii, e nella sommità è un vecchio arbusto di quercia, a’cui rami i pellegrini son soliti appender pietre.
Per scendere giù ai santuarii nella caverna si entra per una porta gotica, poggiata su due colonne da ciascun de’ lati. Nel mezzo dell’arco acuto siede la Madonna col Bambino, tra San Pietro e San Paolo, gruppo in marmo eseguito con molta nobiltà di sentimento. L’epigrafe, ond’è fregiata, in cambio d’invitare il pellegrino ad entrare, sembra fatta apposta per incutergli terrore ed al]ontanarlo, quasi fosse qui proprio la Sancta Sanctorum d’Iside: Terribilis Est Locus Iste, Hiic Domus Dei Est Et Porta Coeli. La porta conduce ad una spaziosa scala discendente, in pietra di cinquantacinque gradini, al basso della quale si apre una seconda porta gotica. Poichè avemmo varcato la soglia della prima ci vedemmo dinanzi la grande scala, tagliata nella pietra viva, coperta di archi gotici, fiocamente illuminata dalla luce del giorno, che vi penetra pe’ fori lasciati dalla roccia stessa.
Attraversammo prima parecchie stanze, gremite di rivenduglioli di mille gingilli tutti relativi all’Arcangelo: amuleti, medaglie, corone del rosario, rami di pino, conchiglie a mucchi, immagini rozzissime, e specialmente statuette rappresentanti San Michele; insomma, una fiera a buon mercato. Lungo le pareti, sopra tavole ed assi, codeste statuette eran disposte a centinaia e delle più svariate grandezze. Sono di marmo friabile del Gargano e fatte di pezzi: ali, capo, corona, scudo, spada, anche il piedistallo di legno giallo, si possono staccare pezzo a pezzo, e riporli in una cassetta. Questo modo tenni io per portarmi felicemente a casa il mio San Michele, che mi sta ora dinanzi sano e salvo.
Non avevamo fatto la scala, che una torma di sciancati, di storpii, di pitocchi ci fu intorno, levando alte grida, e impedendoci l’andare oltre. Finalmente ad uno scaccino riuscì aprirci il cammino, offrendosi pure a servirci da mentore in quel mondo sotterraneo.
Nello scendere avevamo notato in più luoghi su’gradini e sulle pareti della scala l’impronta incisa di mani e di piedi, ciò che destò in noi un senso di orrore. Ora sapemmo, che sono segni per antica tradizione impressi da’ pellegrini. Così pure le pareti, come nelle catacombe di Roma, si veggono tutte imbrattate e scarabocchiate de’ loro nomi.
Per la porta da basso entrammo quindi in una piccola corte quadrata, e qui rivedemmo di nuovo la luce del giorno. Questo è il più antico cimitero de’ pellegrini. Alle pareti sono addossate alcune tombe; ma niuna di esse va più in su del secolo XV.
L’atrio mette alla chiesa, la quale è situata in lungo innanzi alla santa grotta. Vi si entra dal lato orientale della corte, per una porta in stile romano, con imposte di bronzo che il ricco amalfitano Pantaleone fece costruire, nel 1076, a Costantinopoli. Sopra ventiquattro tavole contengono figure lavorate in niello in istile assai primitivo ed ingenuo, ma piene di espressione, ]e quali rappresentano tutte apparizioni di angeli: la cacciata dal paradiso de’ primi progenitori, gli angeli in presenza di Abramo e Giacobbe, di Daniele e Zaccaria, la liberazione di San Pietro dal carcere, e scene somiglianti, sino all’apparizione di San Michele innanzi al vescovo Lorenzo in Siponto. Sulla porta si leggono le parole leggendarie che l’Arcangelo avrebbe dette a quel prelato: Ubi saxa panduntur, ibi peccata hominum dimittumtur. E poscia: Haec est domus specialis, in qua noxialis quaeque actio diluitur.
La chiesa fu edificata sotto il primo Angioino. Non ha che una sola navata, ardito lavoro di architettura gotica, per metà tagiato nella roccia. A sinistra è illuminata dalla luce del giorno, e da questo lato è pure il coro con i suoi banchi e stalli in legno pe’canonici. A destra si apre l’accesso alla Sancta Sanctorum alla famosa e miracolosa grotta, al punto centrale del culto dell’Arcangelo in tutto l’occidente. L’apertura ha quaranta piedi di larghezza e sedici di massima altezza.
Mentre eravamo lì dinnanzi, una strana, una indescrivibile scena ci si offrì allo sguardo, quasi fiaba la cui azione si svolgesse nelle visceri di una montagna incantata e illuminata. Se Dante avesse potuto assistervi, n’avrebbe, di certo, fatto tesoro nella Divina Commedia. Folte schiere di pellegrini, che circondati da incerta e fioca luce parevano spiriti, gremivano la scala di marmo, che dalla chiesa mette su alla grotta. Si pigiavano e spingevano per salire, o stavan fermi, o anche ginocchioni. Nell’oscuro fondo della spelonca, sull’altare coperto di porpora, ardevano candele, che irradiavano la bianca figura dell’Arcangelo, il quale pareva battesse le ali. Un sacerdote con un chiericozzo si muovevano in qua e in là, innanzi all’altare, compiendo fantastici inchini e genuflessioni. I preti in chiesa cantavano con stentorea voce, e di laggiù venivano pure a ondate gli accordi dell’organo. Le ombrose volte della chiesa, di sopra la gola oscura della caverna, il baglior tremolante che ne pioveva fuora, la solennità de’ canti e de’ suoni, quella calca di gente silenziosa, mutola: tutta questa vita misteriosa e sotterranea produceva un’impressione che non si lascia esprimere con parole. Si sarebbe potuto credere che fosse nient’altro che un sogno.
Il prete dell’altare aveva appunto dato principio alla messa; epperò noi eravamo peritosi a spingerci più in là. Ma lo scaccino, che ci accompagnava, c’invitò a tenergli dietro. Con modi sgarbati e grossolani, senza riguardo di sorta, come se si fosse stati nella baracca del saltimbanco, ci fece largo tra la fitta moltitudine. Superata la scala, ci fece penetrare sin presso al jerofante, e lì, quasi dietro all’altare, dovemmo rimanere.
Veramente, lo stare colà non era per noi poco penoso. Ci eravamo cacciati, quasi invasori, in quel luogo, dove si compivano misteri che non ci riguardavano; e ciò senza nostra intenzione. Del resto, potemmo presto farci accorti che quella tolleranza senza limiti, comunissima in quale che siasi chiesa d’Italia, per cui l’elemento profano può, come meglio gli pare e piace, andare e venire e aggirarsi nella dimora del santo, anche qui era ammessa ed esercitata. Dall’altare, è vero, il prete ci volgeva tratto tratto un’occhiata curiosa, investigatrice; ma si vedeva pure, che, più che con un rimprovero, l’accompagnava con un sorriso fuggitivo. La grotta era piena zeppa di pellegrini. Uomini e donne, che ci stavano vicini, o immersi nelle loro divozioni o intenti a fare le loro sacre gesticolazioni, non ci guardavano che con piena indifferenza. Infine, se pure qualche scrupolo ancora in noi rimaneva, venne a liberarcene l’incredibile ingenuità del nostro scaccino. Malgrado della sua condizione officiale di custode del tempio, egli riguardava tanto poco il Granduca celeste come un essere che bisognasse trattare col dovuto rispetto, che trovò affatto naturale l’accendere ad uno de’ candelieri, che ardevano sull’altare stesso, un moccolo attaccato ad una canna, e con esso illuminare in qua e in là, dal di dietro, la figura dell’Arcangelo, onde noi avessimo agio di vederla in modo più spiccato. E tutto questo nel momento appunto, che a due passi da noi il canonico compiva il sacrifizio della messa innanzi alla figura dell’Arcangelo! E non valsero a nulla i nostri segni di rifiuto, chè egli non vi badò. Certo, la sconcia azione non potette sfuggire al gran sacerdote dell’Arcangelo; ma il fatto è che nessuno se ne mostrò sorpreso!
Così presso com’ero, io osservava la scena meravigliosa con la stessa intensa curiosità, con la quale Erodoto e Plutarco assistettero un tempo ai misteri in Egitto, nella Siria e nella Grecia. Spettacolo piu singolare non avevo mai visto in mia vita ! Come quadro, illuminato alla maniera di Honthorst, avrebbe rappresentato il sublime del fantastico. Noi stavamo nella più riposta profondità della spelonca, dalla cui negra volta trapelavano e cadevano su noi gocce d’acqua. Intorno intorno pellegrini genuflessi ed oranti. Dinanzi a noi l’altare illuminato con sopra la figura dell’Arcangelo. Poi il prete e il chiericozzo che cantavano, intercalando il canto con inchini e riverenze. Più in là, in fondo, vedevamo la scala, letteralmente coperta di devoti, e sulla oscura massa che formavano, e anche oltre nella chiesa, scorreva leggiero e tremolante il barlume delle candele.
Quando pensai che questo culto per un essere creato dalla fantasia, o addirittura per un fantoccio, venne celebrato identicamente, sempre nella stessa cappella, per tredici secoli; ch’anzi per la sua origine semitica, superando il nascimento stesso del Cristianesimo, va a perdersi nella notte de’ secoli remoti; non devo negare che l’impressione in me fu grande. Questo Arcangelo, prima di assumere la figura che ora ha, è trapassato per una serie di miti cosmogonici. E la stessa figura presente ha per sè una storia ignota. Forse l’effigie di San Michele e qui, su questo altare, sin dal VI secolo. Al tempo della persecuzione iconoclasta bizantina sarà stata abbattuta; e poscia nel secolo VIII rimessa su di nuovo. Tale qual è oggi, è un lavoro della fine della Rinascenza: una statua di marmo, alta forse tre piedi. L’Arcangelo è coperto di corazza, con un’alta corona sulla chioma inanellata, le ampie ali distese, nella destra la spada, sulla sinistra lo scudo, e di sopra alla corazza una clamide che cade all’indietro.
Tuttochè armato così marzialmente, pure, al pari di tutti gli angeli, San Michele fa un’mpressione infantile. E tutto il culto per lui riveste il carattere medesimo: una bambinería messa su per baloccarsi. I misteri nella grotta del Gargano non hanno in verità nulla in sè di orrido o di spaventevole. Essi non sono che una fiaba fantastica, come quella del Castello d’Arturo, di Dornröschen, del Venusberg, e del Kyffhäuser: soltanto una fiaba elevata sino all’idealità religiosa. I fedeli qui convenuti a pregare, non parevano dominati nè agitati da tetre immagini. Solo una vecchia donna che era accanto a noi, dava qualche segno di movimenti convulsivi: senza posa s’assestava violenti pugni al petto, mentre una giovane, che le stava vicino, aveva in cambio ogni ragione di trattarsi con dolcezza e riguardo.
Io credo che tutti questi pellegrini sotto l’immagine dell’Arcangelo alato non si rappresentino che un essere celeste, amorevolmente disposto, un salvatore e un patrono, e soprattutto un genio tutelare. Egli siede presso il trono di Dio, e la dimora sua è la luce. Che cosa è qui la grotta tenebrosa? Stando alla ingenua credenza del pellegrino, è il simbolo della terra o del mondo umano, nel quale è piovuto dall’alto un raggio del divino. Ma, anche quaggiù, nella caverna, il pensiero del devoto pellegrino va cercando il suo genio non nelle spaventose tenebre delle catacombe, bensì nelle regioni eteree. E a lui s’offre un’immagine bella e graziosa che lo rallegra e solleva, e cui non si mescola alcuna rappresentazione del deforme e nulla che ricordi il tormento, gli affanni e la morte.
Gli angeli o i genii sono le uniche figure non nate a soffrire che i miti cristiani abbian create o, per dir meglio, ricevute dalle antiche religioni dell’oriente. Esse sono la più attraente delle creazioni poetiche della cosmogonia asiatica. Nessuna credenza più dolce e più tenera di quella in un angelo tutelare, che vada svolazzando sul sentiero dell’uomo errabondo. E la figura stessa di San Michele non ha altro significato, ancorachè la sua lotta con i titani, ribelli del cielo, gli dia l’impronta di Ercole. Il culto di lui non ha in sè niente di quella ributtante materialità delle reliquie e di un magico feticismo, compagna indivisibile dell’adorazione de’ santi. Invece è e rimane sempre il culto del buon genio e della luce; un culto più umano, per lo meno più ideale di quello che onora gli altari de’ molti martiri della Chiesa. Senza dubbio, sapienti come Pitagora e Socrate, poeti come Milton e Klopstock non gli avrebbero rifiutata la loro adesione.
La vista del grazioso genio non può disporre il pellegrino che ad impressioni e sentimenti miti. Questi, non legandosi a nulla di determinatamente dommatico, non stando in relazione con alcun fatto della storia ecclesiastica, si risolvono in fondo tutti in puri concetti universali. Quelle rappresentazioni che la cavalleria nel medio evo si formò di San Michele, come del cavaliere celeste, come del debellatore degli infedeli e degli altri nemici della Chiesa, sono venute meno. Solo una propaganda tutta partigiana ha potuto ora tentare di voler far dell’Arcangelo il gran maresciallo della rivincita per i disastri toccati nel 1870 alla Francia e al Papato. La possanza di lui sarebbe destinata ad annientare le conquiste germaniche ed espellere dal profanato Quirinale il novello Eliodoro. Impresa, per verità, ardua anche pel buon Arcangelo d’Avranches, chè in fatto di scienza di guerra egli dev’essere rimasto un po’indietro rispetto alle esigenze del tempo! E chi sa pure, se codesta impresa, che gli si vuole addossare, egli sia in fine disposto a riguardarla come una missione in servizio del principio della luce? Con la sua fine ironia il geniale Kaulbach ha dipinto il San Michele tedesco sotto l’effigie appunto dell’Arcangelo, coperto però il capo dell’elmo prussianìo e in atto di sgominare, qual vittorioso riformatore, le potenze tenebrose del 1870.
Questo intanto è da tenere per sicuro, che l’Arcangelo italiano sul Gargano non sarà mai per sguainare la spada contro Vittorio Emanuele. Per gl’intenti del legittimismo e della propaganda gesuitica egli non è accessibile al fanatismo; e Don Carlos ed Enrico V hanno poco a sperare da lui. Allorchè gl’Italiani entrarono nel suo Castel Sant’Angelo, egli non pensò punto a trar fuori la spada e salvare il Dominium Temporale. In cose di religione nessuna nazione fu ed è più facilmente accensibile della francese di che son prova le sue molte e spaventevoli guerre di religione: gli Albigesi, gli Ugonotti, la notte di San Bartolommeo, le Dragonades e via di seguito. Nessuna al contrario lo è tanto poco quanto l’italiana. Processioni, come quelle che oggi in Francia si veggono andare in giro, nessuna potenza sacerdotale, neppure il comando espresso del Papa, potrebbe in Italia riuscire ad organizzarne, e volesse il Santo Padre condurle egli stesso in persona al Gargano, a Loreto o a San Nicola di Bari.
Quando fui a visitare quest’ultimo santuario, anch’esso assai famoso, anch’esso uno de’ più frequentati pellegrinaggi nel mezzogiorno d’Italia, entrato nella sacrestia, vidi pendere dalle pareti l’uno dirimpetto all’altro, nel migliore buon accordo del mondo, i ritratti di Pio IX e Vittorio Emanuele. Il re delle Due Sicilie è per antichissima tradizione canonico nella chiesa di San Nicola di Bari. La ecclesiastica dignità è stata, come prima, senza difficoltà trasmessa anche all’usurpatore. Il clero nelI’Italia Meridionale seppe in ogni tempo accomodarsi ai fatti politici compiuti. Quale sia la dinastia regnante nel paese, a lui è in fondo indifferente. L’essenziale è stato sempre che lo si lasciasse valere e non si portasse la mano all’esercizio del suo culto. Oggi come pel passato il clero mantiene quasi illimitato l’antico dominio sulla coscienza delle moltitudini. Le mutazioni quivi occorse hanno avuto carattere puramente politico e nessuno morale. Una inveterata maniera di vivere secondo antiquate abitudini ereditarie vi dura e vi si serba intatta, sostenuta da una superstizione millenaria; e a niuno è dato preconizzare il come e il quando il culto degli antichi santuarii italiani abbia a cadere estinto. L’unico cangiamento subíto da’ misteri del Gargano consiste nel numero assottigliatosi degli oblatori di offerte e nell’essere spariti dalla lista de’ pellegrini e visitatori i nomi d’imperatori e di altri grandi e potenti della terra. Ma anche ciò potrebbe forse non essere che un fenomeno molto transitorio. Niuno assicura non possa venire il giorno che un papa o un re buon cattolico non abbia di nuovo a fare la sua comparsa sul Gargano.
La messa era finita e la grotta andava sfollandosi. Allora potemmo osservarla a nostro agio. Presso l’altare è una pila, che pe’pellegrini che vi attingono, è una vera fonte benedetta. Le si leva accanto una vecchia figura dell’Arcangelo; ed è in una pietra l’impronta di una sua pedata, I’unica reliquia che si abbia di lui. Vedemmo anche una vecchia cattedra in marmo con una effigie di San Michele ed un’antica figura di San Giacomo, il cui tempio a Compostella gareggiava nel medio evo con questo del Gargano. Il pavimento della grotta non è di pietra naturale, ma coperto di marmo bianco e rosso.
Poichè fummo usciti fuori dall’antro a rivedere le stelle, la procella s’era calmata; e noi andammo un po’in giro per la città di Sant’Angelo. Originariamente essa non comprendeva che ospedali pe’ pellegrini, de’ quali alcuni rimangono ancora oggi. Già nell’XI secolo era diventata un ragguardevole luogo fortificato, e insieme con tutto il paese del Gargano formò il centro di un feudo regio, del quale grandi signori portarono il titolo. I diritti che vi erano annessi, furono chiamati: l’onore di Monte Sant’Angelo. Federico II ne investì per testamento l’amato figliuolo suo, Manfredi.
La città conta oggi più di 10,000 abitanti. Le sue case tinte a bianco, ornate pressochè tutte di una piccola nicchia con entro la figura dell’Arcangelo, sono del più bizzarro stile: la maggior parte a un sol piano, con scale di pietra scoperte, che per un uscio a vólta menano su di una terrazza. La facciata d’ordinario forma un quadrato, dove la porta d’ingresso serve al tempo stesso dli finestra. All’interno riboccano di sudiciume. Non una che avesse aspetto alquanto bello e pulito; eppure di persone ricche non dev’essere difetto in Sant’Angelo. Ci fu raccontato che tengono sepolti sotterra mucchi d’oro e d’argento, e che traggono la vita più miserabile che possa immaginarsi; mentre mandavo poi i figliuoli a studiare a Napoli.
Dove la città verso l’interno della montagna si termina, si può gettare uno sguardo sulla grandezza selvaggia e deserta del Gargano. Negre foreste di pini e di querce vanno costì avvallandosi fra i profondi burroni. Pure quasi da ogni parte sono pezzi di terreno disposti a terrazzi ove vegetano viti ed olivi. E più in fondo vi sono anche campi di biade, ed orti innaffiati da sorgive che nel monte non mancano.
Dall’anno 1860 al 1869, questa regione montuosa, al pari degli Abruzzi, brulicava di briganti: oggi è stata purgata di siffatto malore. Il Governo è intento a congiungere insieme tutti i paesi del Gargano con una rete di strade e di fili telegrafici; il che forse è il mezzo più sicuro per provvedere l’appartato mondo alpestre di elementi di più alta coltura.
Con un certo tal quale desio spingemmo l’occhio entro gli ascosi recessi delle montagne e delle valli a noi sconosciute: il poterle percorrere a cavallo dovrebb’essere un vero gusto. Ma con maggior desiderio ancora guardavo io quell’ammasso di rupi selvagge, che dal lato d’oriente va a sprofondarsi nel mare. Colà sotto è Vieste, la remota, la perduta dal mondo. La sua solitudine dev’essere un incanto; ma a noi non fu dato visitarla. Da Sant’Angelo ci parve meglio tornarcene a Manfredonia, lieti di aver potuto felicemente compiere il nostro pellegrinaggio alla sede dell’Arcangelo sul Gargano.


Ferdinand Gregorovius - "Nelle Puglie"

Traduzione in italiano di Raffaele Mariano

G. Barbera Editore - Firenze - 1882

sabato 10 gennaio 2009